Il tempo passa. Scandito dalla notte dei tempi ad un ritmo costante e inesorabile, l’umanità ha imparato a misurarlo ed è oggi uno dei riferimenti che rendono possibile programmare attività e vivere più o meno efficacemente le nostre vite, professionali e personali.
Da un punto di vista scientifico è una grandezza fisica fondamentale, definita come distanza tra gli eventi calcolata nelle coordinate spazio-temporali quadridimensionali. No, non vi preoccupate, non voglio farvi una lezione di fisica… anche perché sarei l’ultima delle persone in grado di farla. Mi piacerebbe però fare alcune riflessioni insieme a voi partendo dal tempo e dall’impatto che ha su di noi.
Userò allora una definizione più semplice: il tempo è la percezione e la rappresentazione della successione degli eventi intorno a noi. In quanto percezione essa è relativa, perché influenzata da molteplici fattori che possono variare. È il motivo per cui ci capita di passare dalla noia allo stress, dal tempo che non passa a quello che non basta. Perché gli eventi intorno a noi non sono sempre identici (nel numero, nella forma, nella sostanza) e perché le nostre capacità cognitive non sono sempre le medesime.
Dunque, la riflessione che volevo sottoporvi è la seguente: gli ultimi 50 anni hanno visto un aumento vertiginoso ed esponenziale delle informazioni intorno a noi. Alcune delle informazioni ci rimangono ovviamente ignote, ma molte altre divengono uno di quegli eventi di cui la nostra percezione temporale deve prendersi cura. Il che rende la nostra percezione del tempo estremamente più complessa oggi rispetto a quella delle generazioni che lavoravano 50 anni fa.
Tante più informazioni, sempre più complesse le relazioni tra esse. Pensate che i principi logici su cui si basano i database sono cambiati drasticamente negli ultimi 40 anni per cercare di gestire meglio l’aumentata complessità delle informazioni. I primi esperimenti di database negli anni ‘60, poi dagli anni 70 la nascita dei database relazionali e la loro crescita da semplici tabelle evolute a strumenti su cui costruire vere applicazioni. Poi negli anni 80 l’affermazione dello Scructured Query Language (SQL) che consentiva di interrogare con rapidità ed efficacia i database e che dunque ne consentì lo straordinario successo commerciale. Negli anni 90 tale successo fu rafforzato dalla nascita di Internet che fece però evolvere i database relazionali verso nuove configurazioni client server.
Gli anni 2000 videro aumentare le informazioni da gestire nei database e sempre più spesso un server non bastava più. In tal senso occorreva mettere insieme database distribuiti su più server e SQL mal si adattava a tale configurazione. Iniziò l’era dei database NoSQL e poi arrivò il tempo anche dei DistribuitedSQL.
Gli ultimi 20 anni ce li ricordiamo meglio, vero? L’era dei social network, dei contenuti creati dagli utenti, dei like, dei commenti, delle condivisioni. Miliardi di interazioni. C’è stato l’avvento dei network database che consentono di mettere in relazione più liberamente i dati e ricavarne aggregazioni potenzialmente infinite. Su tali principi lavorano anche gli algoritmi di cui si parla tanto negli ultimi anni: modelli predittivi estremamente complessi che mettono assieme informazioni diverse provenienti da molteplici fonti, tutto per provare a prevedere cosa ci piacerebbe leggere, vedere, comprare.
L’ultimo triennio, con le sue tragedie i suoi stravolgimenti, ha solo reso ancora più palese tale situazione.
Ora fermiamoci un istante perché altrimenti perdiamo il senso di questa riflessione. La sovrabbondanza di informazioni ci travolge quotidianamente, superando con la sua complessità le nostre capacità cognitive. Ne deriva dunque una percezione del tempo compressa, congestionata, talvolta claustrofobica.
Facciamo ancora un passo in avanti nella nostra riflessione. Se i database sono stati fatti evolvere negli ultimi decenni, se gli algoritmi sono stati istruiti per adattarsi ai nostri gusti, perché noi non dovremmo modificare il modo con cui approcciamo le informazioni, le organizziamo, le condividiamo?
Non dico che non sia stato fatto qualcosa su questi temi, ma si è trattato di elementi estemporanei, slegati tra loro: qualche nuova applicazione, alcune nuove funzionalità aggiunte ai programmi tradizionali, corsi di formazione su competenze utili a gestire tali novità.
È mancato finora un approccio complessivo, la consapevolezza di trovarsi in un contesto cognitivo completamente differente che richiede processi e metodologie che lavorino in maniera coordinata su più livelli.
Il mio lavoro di formatore e consulente mi ha aiutato a mettere a fuoco questa riflessione, traendo spunti da contesti aziendali differenti, calandola all’interno di modelli organizzativi diversi, verificandola in molteplici professionalità. Non ho ovviamente la presunzione di aver trovato la soluzione, ma penso di aver individuato alcune traiettorie, percorrendo le quali si potrà individuare un approccio che mi piace definire sostenibile.
Per prima cosa serve una reale consapevolezza di essere dei Life Long Learner: volenti o nolenti non potremo smettere di imparare. Questo comporta la capacità di fissare degli obiettivi nel breve, medio e lungo termine in maniera coerente rispetto al contesto personale e professionale che viviamo. In questo senso possono venirci in aiuto metodologie come OKR e Agile: bisogna abituarsi a tradurre gli obiettivi di apprendimento in programmi concreti, realizzabili e misurabili; contemporaneamente bisogna approcciare tali programmi attraverso cicli di apprendimento. Tutto senza fanatismi o ideologie: ognuno deve trovare il ritmo giusto.
La seconda traiettoria è quella di una evoluzione nel knowledge management che ci renda capaci di filtrare le informazioni, di selezionarle, di organizzarle, di renderle effettivamente utili. In questo ovviamente ci può venire in aiuto quanto descritto nelle righe precedenti: se ho chiaro il mio percorso di apprendimento, se ho definito bene perché sto imparando, allora dovrebbe essere più chiaro quali informazioni sono importanti per me, per la mia professione, per la mia organizzazione. Anche il framework entro il quale organizziamo tali informazioni dovrebbe essere declinato sulla base del contesto entro cui conduciamo le nostre vite, professionali e personali.
La terza fase di questo approccio evoluto è quello legato alle modalità attraverso le quali condividiamo tali informazioni: vi sono aspetti ovviamente tecnologici (piattaforme, applicazioni, strumenti) e nuove competenze soft e hard da sviluppare (comunicare e collaborare a distanza, video produzione, podcasting, streaming, data visualization, etc…). In un certo senso mi piace pensare che sia il momento di trasformarci da knowledge worker a knowledge creator. No, niente balletti. Solo la lucidità di cogliere spunti, tecniche e approcci dal mondo dei content creator mettendoli al servizio del contesto professionale che viviamo, in un’evoluzione che ponga l’enfasi sulla condivisione del sapere aziendale come momento di ulteriore creazione e miglioramento di tale sapere.
Sono traiettorie, fasi che si influenzano reciprocamente. Le aziende che sapranno facilitare tali approcci, adattandoli alle loro caratteristiche e ai loro modelli organizzativi, avranno sicuramente una marcia in più e potranno decifrare la complessità dei nostri tempi rendendo possibile un approccio al lavoro sostenibile.
Ora mi fermo, perché nella foga di raccontarvi della complessità della nostra era dell’informazione non vorrei aver aggiunto troppi elementi. Spero invece di avervi offerto uno spunto di riflessione e di avervi dato una nuova prospettiva al senso di sopraffazione che spesso ci capita di provare nella nostra vita quotidiana.
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